GUERRA D'ETIOPIA

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Contesto storico

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L'Ottocento, soprattutto nella sua seconda metà, vide i paesi occidentali interessarsi sempre di più ai commerci in Asia e Africa, verso i quali fu lanciata una vera e propria corsa all'esplorazione e alla conquista di nuovi territori. L'autorevole quotidiano britannico The Times parlò nel 1884 di una vera e propria "zuffa" per l'Africa (scramble for Africa), dove in primo luogo Gran Bretagna e Francia, e poi anche Germania, Belgio, Paesi Bassi e per ultima l'Italia, tentatori di instaurare domini d'oltremare in questi continenti[1]. L'avventura coloniale italiana ebbe inizio nel 1882 quando il governo acquistò dall'armatore genovese Raffaele Rubattino la piccola baia di Assab nel mar Rosso, e proseguì timidamente tre anni più tardi, quando con il lasciapassare britannico, un piccolo corpo di spedizione occupò Massaua, sempre nel mar Rosso[2]. Tuttavia l'Italia si presentava alla corsa coloniale mentre ancora il suo processo di industrializzazione era allo stato larvale; il livello di industrializzazione era meno di un decimo di quello britannico e la produzione di ferro era circa un ottocentesimo di quello britannico[3]. Ma questi dati non vennero forniti all'opinione pubblica, nel bel mezzo dell'età degli imperialismi, delle rivalità internazionali e dei nuovi intrecci politici ed economici che si stavano sviluppando in Europa, si trovò allineata con la politica di prestigio internazionale che catapultò il paese nella guerra di Abissinia[4] e nella sua tragica disfatta ad Adua, il 1º marzo 1896, che rappresentò il luogo e il momento in cui le velleità espansionistiche di Francesco Crispi e della classe dirigente vennero annientate dalle armate di Menelik II[5].

Da allora per diversi anni il Corno d'Africa non fu più al centro delle mire espansionistiche dell'Italia liberale; ci si limitò ad una gestione civile della colonia in Eritrea e ad un protettorato in Somalia. La colonia primogenita fino agli anni Trenta non fu oggetto di dibattito pubblico (limitato ai circoli coloniali e alle società di esploratori)[6], ma vennero mantenuti solo rapporti economici e diplomatici almeno fino al novembre 1932, quando Benito Mussolini invitò il ministro delle Colonie Emilio De Bono a preparare uno studio per una campagna militare contro l'Etiopia[7]. Negli anni fino al 1925 l'interesse italiano verso l'Etiopia rimase prevalentemente diplomatico, ma fu svolto con tale costanza da far capire sia ad Addis Abeba che a Londra e Parigi, che le ambizioni di Roma era tutt'altro che spente. Rilevante fu la politica periferica del governatore dell'Eritrea Jacopo Gasparini, volta allo sfruttamento del Tessenei e alla collaborazione con i capi tigrini in funzione anti-etiopica, così come l'azione repressiva di Cesare Maria De Vecchi in Somalia, che portò all'occupazione del fertile Oltregiuba e alla "riconquista" in ossequio alla retorica fascista di dominio diretto di tutta la Somalia, che fino ad allora aveva visto una collaborazione tra colonizzatori e capi tradizionali, che si concluse nel 1928. In quest'ottica vi fu la firma di un patto italo-britannico il 14 dicembre 1925, che sarebbe dovuto rimanere segreto, in cui Londra riconosceva l'interesse prettamente italiano nelle regioni alto-etiopiche e la leicità della richiesta italiana di costruire una ferrovia che collegasse la Somalia all'Eritrea. La notizia dell'accordo però venne diffusa da Londra, con irritazione del governo francese ed etiopico, che peraltro denunciò l'accordo come un colpo inferto alle spalle di un paese peraltro ormai a tutti gli effetti membro della Società delle Nazioni[8].

Anche se come detto è almeno dal 1925 che Mussolini medita di aggredire l'Etiopia, soltanto nel 1932 egli prende la decisione definitiva, mobilitando per prima cosa tutto l'apparato propagandistico fascista per far sì che il paese tornasse ad interessarsi delle questioni coloniali in previsione dell'intervento militare. In vista del «decennale della rivoluzione», vennero impostati dalla propaganda due temi fondamentali: il «mito del Duce» e l'idea della «Nuova Italia»[9]: viene incoraggiata la pubblicazione di opere coloniali con l'intento di magnificare le realizzazioni compiute nel decennio fascista, nelle quali il regime lascia trapelare i suoi programmi, come gli ammiccamenti del sottosegretario alle Colonie Alessandro Lessona che indica come «l'Italia mussoliniana ha ritrovato in Africa le vie maestre del suo divenire»[10]. Sui temi dell'espansione coloniale il Ministero delle Colonie organizzò mostre commerciali, esposizioni etnografiche, manifestazioni politiche[11], e nel dibattito pubblico intervennero storici, esperti coloniali, giuristi, antropologi ed esploratori come Lidio Cipriani che pubblicò alcuni studi con lo scopo di dimostrare «l'inferiorità mentale dei negri» e l'attitudine degli italiani ad adattarsi ai climi tropicali africani, prova inconfutabile secondo l'esploratore, del destino di dominatori che gli italiani avranno in Africa[12].

L'impostazione della guerra

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Salvo qualche voce isolata, a propaganda coloniale fu tutta ispirata dal regime e si proponeva di preparare il paese ai fasti, ma anche ai sacrifici, dell'impero annunciato da Mussolini fin dal "discorso dell'Ascensione" del 26 maggio 1927[13]. Dietro a questa campagna propagandistica però non c'era nulla di concreto, solo nell'estate del 1932 con la stesura da parte dell'ambasciatore a Madrid, Raffaele Guariglia, della lunghissima Relazione sull'Etiopia viene delineata una politica precisa che voleva terminare l'inconcludente politica d'amicizia con Addis Abeba, rafforzare i dispositivi militari dell'Eritrea e della Somalia e dare il via ad una politica di forza perché «Se noi vogliamo dare un'espansione coloniale al nostro Paese, anzi, per dire una parola grossa, formare un vero Impero Coloniale italiano, non possiamo cercare di fare ciò in altro modo che spingendoci verso l'Etiopia» affermando comunque che una campagna militare sarebbe sta impensabile senza prima ottenere il consenso della Francia e della Gran Bretagna[14]. Il documento, del 27 agosto 1932, venne lungamente vagliato da Mussolini prima che questi autorizzasse in novembre Emilio De Bono ad iniziare gli studi per la preparazione militare, il quale intuì fin da subito la grande occasione che gli si offrì. Ottenuto l'incarico di recarsi in Eritrea per vedere e riferire, De Bono si rivelò inizialmente cauto e prudente, ma probabilmente per paura di essere scavalcato da altri, nei mesi successivi cambiò atteggiamento e cominciò a prendere in considerazione una guerra preventiva che prima avrebbe sconsigliato a causa della precaria situazione riguardante le infrastrutture portuali e stradali, e per le enormi spese a cui si sarebbe andati incontro, senza considerare gli eventuali scontri diplomatici con Francia e Gran Bretagna[15].

Assieme al colonnello Luigi Cubeddu, comandante delle truppe in Eritrea, De Bono preparò in poco tempo la Memoria per un'azione offensiva contro l'Etiopia dove venne previsto l'impiego contro l'esercito abissino (valutato in 200-300 mila uomini) un corpo i spedizione forte di 60.000 eritrei e 35.000 italiani, appoggiato da una brigata aerea. De Bono puntava tutto sulla velocità dell'azione, in modo tal da occupare tutta la regione dei Tigrè prima che il il grosso dell'esercito nemico si fosse mobilitato, assegnando alla Somalia forze minori, calcolate in circa 10.000 somali e 10-12.000 libici, poiché l'azione a sud verso Addis Abeba avrebbe dovuto avere carattere esclusivamente diversivo[16]. Secondo lo storico Giorgio Rochat il piano di De Bono rivelava una grande superficialità organizzativa, imputabile in parte all'importanza politica che il generale italiano volle dare al piano, diminuendone i rischi, i costi e sottovalutando il nemico e la preparazione necessaria, con il chiaro intento di allinearsi al volere del Duce di favorire una politica aggressiva e rapida[17], e in parte all'impostazione da tipica guerra coloniale che De Bono diede alla campagna, fatta da conquiste graduali, forze contenute e impiego di truppe coloniali[18]. L'unica cosa sensata del piano era il riconoscimento di un accordo preventivo con Francia e Gran Bretagna, ma De Bono anche in questo caso non diede importanza ai tempi tecnici necessari alla diplomazia, riducendo in un mese l'intervallo tra la decisione politica e l'inizio dell'offensiva militare, che comunque avrebbero avuto bisogno di più tempo a causa delle limitate possibilità del porto di Massaua e l'insufficienza della rete stradale eritrea[19].

Nei successivi due anni si susseguirono dibattiti sulla preparazione tra le maggiori autorità militari, con rivendicazioni di potere e aspri contrasti anche su posizioni antitetiche: se da una parte De Bono considerava la guerra come una conquista coloniale in vecchio stile, Pietro Badoglio, capo di stato maggiore generale dell'esercito[20]|group=N}} valutava seriamente l'ipotesi di rendere l'aggressione una vera e propria guerra nazionale[7]. Chi non era in linea con il pensiero del Duce veniva però velocemente esautorato, così nel 1933 il ministro della Guerra generale Pietro Gazzera venne liquidato da Mussolini, il quale assunse il dicastero, ma di fatto delegò la gestione al sottosegretario generale Federico Baistrocchi. Questi l'anno successivo assunse anche le funzioni di capo di stato maggiore dell'esercito (anche se buona parte delle attribuzioni passarono di fatto al generale Alberto Pariani) dopo l'esonero del generale Alberto Bonzani, che cercò di difendere il suo ruolo e la priorità della politica europea rispetto a quella coloniale[21].

Alla fine del 1934 si arrivò dunque ad un accordo di massima tra i comandi militari incentrato su due punti: un aumento di forze inviate dall'Italia (circa 80.000 nazionali e 30-50.000 àscari eritrei equipaggiati con mezzi moderni) e un'impostazione cauta delle operazioni; penetrazione nel Tigrè fino alla linea Adigrat-Axum e quindi attendere l'offensiva etiopica su posizione fortificate, per distruggere l'esercito del negus Hailé Selassié[22]. Uno dei pochi punti in cui i partecipanti al dibattito si trovavano d'accordo erano i limiti della situazione strategica: la ricettività del porto di Massaua era del tutto insufficiente, le vie di comunicazione interne in Etiopia erano scarsissime e la condizione era ancora peggiore per quanto riguardava le infrastrutture in Somalia; inoltre, nonostante tutti diedero grande importanza all'aeronautica nulla era stato fatto per l'impiego di centinaia di aerei, né l'avvio della costruzione di aeroporti, né l'inizio di una collaborazione interforze tra esercito e aeronautica. Non esisteva neppure un organo di coordinamento, un alto comando interforze o uno stato maggiore generale in grado di dirimere queste questioni, soltanto Mussolini aveva il potere di impostare la guerra e risolvere i contrasti, ma per due anni lasciò che i ministeri si contrastassero apertamente, tuttalpiù sostituendo gli uomini troppo autorevoli e alternando le poche personalità di valore con le molte mediocri del gruppo dirigente del partito. Fino al termine del 1934 dunque il dibattito si mantenne ad un livello puramente tecnico, i militari mantennero la tradizionale divisione tra le competenze militari e quelle politiche, che spettavano al solo Mussolini; ma la guerra che avevano preparato aveva obiettivi limitati, nessuno sapeva cosa fare dopo aver occupato il Tigrè, nessuno studio prevedeva la possibilità di un dominio italiano su tutta l'Etiopia, e nessuno (a parte Badoglio) aveva considerato le conseguenze deleterie che l'aggressione ad uno stato indipendente avrebbero portato[23]

L'incidente di Ual Ual e le complicazioni internazionali

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La svolta decisiva si ebbe nel dicembre 1934: il giorno 5 il presidio italiano di Ual Ual nell'Ogaden, respinse un attacco (la notizia inizialmente passò quasi inosservata dall'opinione pubblica, solo successivamente fu ingigantito dalla propaganda fino a farne la provocazione che doveva giustificare la guerra[24]) di truppe abissine che tentavano di riconquistare parte dei territori che l'Italia aveva occupato negli anni precedenti approfittando della mancanza di un confine certo tra Etiopia e Somalia[25], e il giorno 30 Mussolini indirizzò alle autorità del regime un promemoria segreto - Direttive e piano d'azione per risolvere la questione italo-abissina - con il quale dava avvio alla mobilitazione vera e propria, ponendo l'autunno 1935 come data per l'inizio delle operazioni. Rispetto a quanto si era prefigurato fino a quel momento, il Duce impostò una guerra massiccia per una conquista totale, rapida e moderna, per la quale mise a disposizione forze triple rispetto a quelle finora richieste, il che comportò non pochi problemi organizzativi perché rimaneva poco tempo per attivare una mobilitazione coordinata[26]. Mussolini in questo promemoria si assumeva la totale responsabilità della guerra, ponendola al primo posto tra gli obiettivi del regime, e indicandone inequivocabilmente l'obiettivo: la conquista totale dell'Etiopia e la nascita dell'impero[27]. Le motivazioni utilizzate da Mussolini nel documento sono presentate sia in maniera superficiale, come la fatalità del conflitto e l'ampolloso rimando alla "rivincita di Adua", sia in modo pretestuoso, come il rafforzamento del potere militare e politico di Hailé Selassié (che in realtà non costituiva nessun pericolo per l'Italia). Il senso generale però fu molto chiaro; il Duce voleva un'affermazione di prestigio da cogliere subito. Fino a quel momento il predominio anglo-francese in Africa aveva impedito a Mussolini di conseguire un qualsiasi grosso successo internazionale che riteneva indispensabile per rafforzare e qualificare il regime fascista; inoltre in quel periodo il protagonismo hitleriano rimise in discussione gli equilibri europei, e ciò mise Mussolini di fronte alla necessità di consolidare la propria figura in vista di un nuovo assetto europeo o di una guerra[28]. Poco importava se l'Etiopia fosse un paese povero e aspro, il cui dominio avrebbe rappresentato un peso più che un guadagno per l'economia italiana, questo era l'obiettivo «naturale» perché la sua conquista si collegava alla breve tradizione coloniale italiana e si presentava come relativamente facile senza peraltro toccare gli interessi di Francia e Gran Bretagna, le quali a buon ragione, Mussolini ritenne che avrebbero sacrificato l'Etiopia alle ambizioni fasciste, sottovalutandone però le reazioni dell'opinione pubblica internazionale[29].

Tra il 4 e il 7 gennaio 1935 Mussolini incontrò a Roma il ministro degli esteri francese Pierre Laval, col quale vennero firmati accordi in virtù dei quali la Francia accordava all'Italia delle rettifiche di frontiera fra la Libia e l'Africa equatoriale francese, fra l'Eritrea e la costa francese della Somalia e la sovranità sull'isola di Dumerrah. L'accordo conteneva soprattutto un esplicito "désistement" francese per una non ben specificata penetrazione italiana in Etiopia e un eventuale invio di nove divisioni italiane a supporto dei francesi se questi fossero stati attaccati dalla Germania.[30]. Laval sperava in tal modo di avvicinare Mussolini alla Francia, al fine di dar vita a un'alleanza in funzione anti-nazista (Hitler non nascondeva le sue rivendicazioni in Alsazia-Lorena), e probabilmente i francesi vollero illudersi che l'invasione italiana si sarebbe limitata ad operazioni coloniali tali da non suscitare proteste internazionali. Difficile è però comprendere come Mussolini e i militari italiani potessero studiare e avvallare piani a sostegno della Francia per mantenere gli equilibri in Europa, e allo stesso tempo impegnarsi nell'organizzazione di una guerra che avrebbe sicuramente messo in crisi gli stessi equilibri internazionali[30]. A tal proposito il primo avvertimento di possibili complicazioni fu l'invio nel mar Mediterraneo di alcune corazzate della Home Fleet, come dimostrazione di forza: buona parte dell'opinione pubblica inglese chiedeva che Mussolini fosse fermato, e anche se il governo britannico non intendeva rischiare nulla per l'Etiopia, dovette mostrare i muscoli e irrigidire le sue posizioni, ma la preparazione all'invasione dell'Etiopia continuò[31].

Nel frattempo la propaganda dovette fa fronte anche ad alcuni segni di dissenso, che divennero evidenti in un tentativo di ammutinamento di alcuni reparti alpini in partenza per l'Africa nei primi mesi del 1935, concentrando tutti i suoi sforzi su due temi principali; la necessità di offrire terra e lavoro alla popolazione italiana in Etiopia e la sfida dell'Italia proletaria e rivoluzionaria alle potenze conservatrici europee che si oppongono ai suoi bisogni di espansione con minacce e sanzioni economiche. Questi temi fecero più presa nella popolazione rispetto ai triti concetti legati al «vendicare Adua» e alle «provocazioni abissine» e ormai ritenute dall'opinione pubblica come pretesti puerili e insufficienti a scatenare una guerra[32]. Ual Ual venne quasi dimenticata, ma dal giugno 1935, la propaganda tornò a diventare efficace, soprattutto in chiave anti-britannica rea di aver appoggiato l'Etiopia e le eventuali sanzioni contro l'Italia[33].

Preparazione e mobilitazione

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La mobilitazione fu uno sforzo notevole per l'Italia, e nonostante il poco tempo a disposizione fu portata a termine senza grossi problemi assumendo dimensioni straordinarie, tanto da essere considerata la più grande guerra coloniale di sempre per numero di uomini, numero e modernità di mezzi, rapidità di approntamento[34]. Stando alle cifre ufficiali redatte in tutta fretta dal sottosegretario della Guerra ministro Baistrocchi nella Relazione sull'attività svolta per l'esigenza AO dell'ottobre 1936, in preparazione alla guerra in Africa orientale eran stati inviati 21.000 ufficiali, 443.000 tra sottufficiali e truppa, 97.000 lavoratori, 82.000 quadrupedi, 976.000 tonnellate di materiali. La marina fornì cifre altrettanto imponenti, 560.000 uomini e 3 milioni di tonnellate di armi e materiali[35]. Vennero chiamate alle armi le classi dal 1911 al 1915, che permise all'esercito di avere una enorme disponibilità di uomini senza indebolire l'esercito in patria; o almeno così asserirono Mussolini e Baistrocchi. Tra il febbraio 1935 e il gennaio 1936 furono inviate in Eritrea sette divisioni dell'esercito (Gavinana, Gran Sasso, Sila, Cosseria, Assietta, Pusteria), una in Somalia (Peloritana) e tre andarono in Libia, mentre dei circa 50.000 volontari circa 35.000 furono "girati" alla Milizia mentre i restanti furono destinati a battaglioni di complemento che sarebbero stati utilizzati per rimpiazzare le perdite[36]. Per volere di Mussolini proprio la Milizia divenne una componente importante del corpo di spedizione, la quale oltre a rappresentare il carattere fascista dell'impresa, grazie ai circa 80.000 volontari che si presentarono (compresi i 35.000 non utilizzati dall'esercito) vennero improntate ben sei divisioni (1ª Divisione CCNN XXIII marzo, 2ª XXVIII ottobre, 3ª XXI aprile, 4ª III gennaio, 5ª I febbraio inviate tra agosto e novembre 1935 in Eritrea e la 6ª Tevere, quest'ultima inviata in Somalia)[37].

Al contrario di qualsiasi altra guerra coloniale fino ad allora intrapresa da una potenza europea, la guerra voluta da Mussolini vide un maggiore impiego di truppe nazionali rispetto alle truppe coloniali. Gli àscari eritrei furono una minoranza e furono gli unici reparti a non subire un aumento di numero durante la preparazione alla guerra (nel 1935 le necessità portarono ad un incremento dei soli dubat fino a 25-30.000 uomini) ma i comandi italiani contavano molto sulla loro tradizionale coesione e combattività su terreni aspri e difficili, peraltro erano "spendibili" senza turbare l'opinione pubblica italiana. In realtà i battaglioni costituiti non avevano un forte inquadramento, al contrario dei pochi battaglioni tradizionali già nati in passato, e la mancanza di studi specifici rendono impossibile la verifica della loro effettiva combattività, soltanto gli episodi di diserzione di interi reparti lasciarono traccia nei rapporti. É indubbio però che il loro utilizzo diede un contributo determinante nella vittoria italiana (nell'offensiva finale verso Addis Abeba si ricorse ad una divisione libica)[38].

L'enorme concentramento di truppe in Eritrea e Somalia attraverso i porti di Massaua e Mogadiscio fu il primo grosso problema assieme alla loro mobilità nel territorio. I porti erano insufficientemente attrezzati per accogliere le centinaia di migliaia di tonnellate di materiali e per far sbarcare migliaia di uomini ogni giorno, mentre le strade su cui uomini e materiali avrebbero dovuto recarsi verso l'interno, erano inadeguate se non inesistenti. I porti mancavano di tutto, attrezzature, banchine, piazzali, manodopera specializzata, assistenza e perfino di un comando; tutto ciò dovette essere costruito in pochissimo tempo, come in poco tempo si dovette ampliare la strada che conduceva ai 2350 metri s.l.m della capitale eritrea Asmara[39]. Venne poi costruita una teleferica e una seconda strada verso la capitale situata nell'altopiano eritreo, da dove sarebbe cominciata la guerra, che sarebbe continuata a sud sull'altopiano etiopico. In tempi accelerati anche la rete stradale sull'altopiano venne migliorata per sopportare il grande traffico di mezzi previsto, e il 1 ottobre 1935 erano ormai stipate sull'altopiano eritreo 5700 ufficiali, 6300 sottufficiali, 99.200 militari italiani, 53.200 àscari, 35.650 quadrupedi, 4200 mitragliatrici e fucili mitragliatori, 580 pezzi d'artiglieria, 400 carri armati leggeri e 3700 automezzi[40]. In Somalia, al comando di Rodolfo Graziani nello stesso periodo erano stati sbarcati 1650 ufficiali, 1550 sottufficiali, 21.150 militari italiani e 29.500 eritrei e somali, 1600 mitragliatrici, 117 pezzi d'artiglieria, 7900 quadrupedi, 2700 automezzi e 38 aerei[41]. Altre forze stavano affluendo, e assieme a loro venne importato tutto quanto era necessario, l'Eritrea era una regione molto povera, così dall'Italia dovette arrivare legname, cemento, grano, tessuto, metallo e ogni altro genere necessario al fabbisogno di quasi un milione di uomini[42].

Problemi non dissimili furono affrontati anche dall'aeronautica che dovette sopperire alla mancanza di aeroporti per far decollare e manutenere i 318 velivoli inviati durante la guerra in Eritrea e i 132 in Somalia. Anche in questo caso la disponibilità finanziaria fu quasi illimitata, e furono create sei basi aeree (Massaua, Zula, Assab, Asmara, Gura e Mogadiscio), diciotto aeroporti e ottantaquattro campi di fortuna con tutte le installazioni necessarie, magazzini, officine e depositi. Fu creato un servizio meteorologico , una rete radio e realizzato un ufficio cartografico. Di questi 450 aerei inviati, un terzo furono i piccoli e collaudati IMAM Ro.1 e Ro.37 bis, poi circa 200 Caproni Ca.101, Ca.111 e Ca.133 da bombardamento e trasporto; erano tutti modelli superati in Europa, ma ancora ottimi per una guerra coloniale. Vennero inoltre mandati in Eritrea ventisei moderni Savoia-Marchetti S.M.81 da bombardamento e alcune decine di piccoli aerei da collegamento e da caccia[43].

TOTTE BISMARCK

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Con il termine Torre di Bismarck (in tedesco Bismarckturm o Bismarcksäulen ossia Colonna di Bismarck) si fa riferimento ad un particolare tipo di monumento costruito secondo un modello più o meno standard in varie località della Germania in onore del primo cancelliere del Reich, Otto von Bismarck. È stato stimato che tra il 1869 e il 1934 furono costruite almeno 240 torri di Bismarck in tutto il territorio dell'Impero tedesco, delle quali al 2017 ne sono sopravvissute 174, distribuite principalmente in Germania e in Polonia[44].


FRED WALKER

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Fred Livingood Walker
 
NascitaContea di Fairfield, Ohio, 11 giugno 1887
MorteWashington, D.C., 6 ottobre 1969
Dati militari
Paese servito  Stati Uniti d'America
Forza armataUnited States Army
ArmaFanteria
Anni di servizio1911 - 1946
GradoMaggior generale
Ferite
GuerreSpedizione messicana
Prima guerra mondiale
Seconda guerra mondiale
BattaglieSeconda battaglia della Marna
Sbarco a Salerno
Battaglia di Cassino
Comandante di36th Infantry Division
Decorazionivedi qui
fonti citate nel corpo del testo
voci di militari presenti su Wikipedia

Fred Livingood Walker (Contea di Fairfield (Ohio), 11 giugno 1887Washington, 6 ottobre 1969) è stato un generale statunitense.


MITO WEHRMACHT PULITA

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La guerra di sterminio

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Avendo il piano di fondare il cosiddetto Grande Reich, la leadership nazista puntò a conquistare i territori dell'est europeo, germanizzare coloro che erano visti come parte della "razza ariana", soggiogare o sterminare la popolazione sovietica e ripopolare detti territori con coloni di etnia tedesca.

Agli occhi dei nazisti, la guerra contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto essere una Vernichtungskrieg, ossia una guerra di annientamento[45]. La politica razziale della Germania nazista vedeva l’Unione Sovietica (e tutto l’Est europeo) come popolata da Untermenschen (sub-umani) non-ariani, governata da “cospiratori giudeo-bolscevichi”[46]. Quindi, la politica nazista era di uccidere, deportare o schiavizzare la maggioranza delle popolazioni russe o slave secondo il Generalplan Ost ("Piano Generale per l’Est")[47]. Il piano consisteva nel Kleine Planung ("Piccolo Piano") e nel Große Planung ("Grande Piano"), che comprendevano rispettivamente azioni da intraprendere durante la guerra e dopo aver vinto la guerra[48].

Prima e durante l’invasione dell’Unione Sovietica, le truppe tedesche furono pesantemente indottrinate di ideologia antibolscevica, antisemita e antislava per mezzo di film, radio, conferenze, libri e volantini[49]. In seguito all’invasione, gli ufficiali della Wehrmacht ordinarono ai loro soldati di prendere di mira popoli variamente descritti come “sub-umani giudeo-bolscevichi”, “orde mongole”, “marea asiatica”, “bestia rossa”[50]. Di conseguenza molti, fra le truppe tedesche, vedevano la guerra in termini nazisti e guardavano i loro nemici sovietici come sub-umani[51]. Un discorso del Generale Erich Hoepner, nel momento in cui dice alla 4ª Armata corazzata che la guerra contro l’Unione Sovietica è «parte essenziale della lotta del popolo tedesco per l’esistenza» (Daseinskampf), e afferma che «la lotta deve tendere all’annientamento della Russia di oggi e deve inoltre essere condotta con crudeltà senza pari», dà un’idea del carattere dell'Operazione Barbarossa e del piano razziale nazista[52].

Negazione dei crimini e nascita del "mito"

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Con la fine della guerra nacque subito la consapevolezza tra gli Alleati dei dilemmi morali impliciti in una ripartizione di responsabilità tra coloro che sarebbero stati imputati durante il processo di Norimberga. Il primo a sollevare la questione nel giugno 1945 fu il giudice statunitense Robert Jackson, il quale temeva la possibilità che la combinazione di due principi legali - l'immunità riconosciuta a un capo di Stato e il diritto di invocare a propria difesa l'obbedienza agli ordini - potesse determinare l'assurda conclusione che nel Terzo Reich «nessuno è responsabile»[53]. Il concetto secondo cui gli individui siano personalmente responsabili di eventuali atrocità commesse eseguendo gli ordini era chiaramente contemplato dalla legge americana e inglese, meno però dalla tradizione giuridica europea. Questa differenza spiega forse perché gli imputati di Norimberga siano ricorsi così volentieri alla tesi secondo la quale la lealtà e l'obbedienza a Hitler rappresentavano una spiegazione sufficiente alle loro azioni e perché gli inquirenti trascorsero ore e ore infruttuose nel tentativo di ottenere un'ammissione di responsabilità da parte degli sconfitti[53]. In particolare i prigionieri militari negarono categoricamente l'idea che le forze armate avessero sistematicamente commesso crimini di guerra o fatto qualcosa di diverso dal combattere la guerra, esattamente come i loro nemici[54]. Generalmente gli imputati militari si dimostrarono più disponibili a un'assunzione di responsabilità, dove era il caso, e discutere particolareggiati argomenti probatori, com'era loro diritto[55]. É probabile che questi fossero sinceri nel proclamare la propria ignoranza dei dettagli politici: prima del 1945 nessuno di loro aveva sentito l'obbligo di alzare il velo di segretezza sui campi e sui servizi di sicurezza, di cui approvavano comunque gli obiettivi. Cionondimeno a Norimberga le svariate negazioni e professioni d'ignoranza furono ascoltate con scetticismo dai giudici e le successive ricerche dimostrarono che, in generale, avevano ragione. Fu molto difficile fare breccia nelle forze armate tedesche, i cui capi affermarono insistentemente che la Wehrmacht non aveva perpetrato nessun crimine, ad est come ad ovest, e accusavano per questo i servizi di sicurezza, la polizia o il barbaro comportamento dei partigiani, contro i quali avevano ordinato rappresaglie durissime[56][57]. Durante il regime hitleriano, e soprattutto dopo il suo crollo, i generali tedeschi tentarono di giustificare la collaborazione con il nazionalsocialismo ricorrendo essenzialmente a due argomentazioni: la prima era che i ranghi degli ufficiali subalterni e la base dell'esercito erano imbevuti di nazionalsocialismo ad un punto tale che sarebbe stato impossibile organizzare un colpo di stato; la seconda esaltava la lunga tradizione di sovra-partiticità (Überparteilichkeit) dell'esercito e i suoi doveri al fronte, che impedivano ogni interferenza con il vertice politico[58].

In questo contesto si piazza l'interrogatorio al generale Heinz Guderian condotta a Norimberga il 5 novembre 1945, in cui il generale offrì all'inquirente una versione "standardizzata" in merito alle responsabilità dell'esercito nelle atrocità, versione che negli anni Cinquanta finì per essere universalmente accettata: l'esercito aveva combattuto, le SS avevano assassinato[N 1]. Il successo con cui i comandi militari riuscirono a presentare la Wehrmacht come una forza operativa che nulla aveva avuto a che fare con il razzismo e la politica di sterminio del regime, ha impedito che si facesse una seria ricerca storiografica sulla guerra nell'est per almeno una generazione[56]. Queste tesi auto-assolutorie vennero ampiamente utilizzate dai generali tedeschi nell'immediato dopoguerra, i quali spiegarono nelle loro memorie come si sarebbe potuto vincere la dirigenza nazista avesse seguito i loro consigli, «in una sorta di prolungamento della battaglia sulla carta» con la quale si voleva offuscare l'effetto di un'altra grande impresa di pubblicazione di fonti d'archivio: l'ampia documentazione raccolta dal Tribunale militare internazionale di Norimberga che costituiva una prova schiacciante delle colpe degli accusati[61]. Archetipo di questo tipo di pubblicazioni auto-assolutorie e accusatorie della dirigenza nazista fu il libro di memorie del generale Erich von Manstein "Verlorene Siege" ("Vittorie perdute") pubblicato nel 1955, due anni dopo la sua scarcerazione a seguito della condanna per crimini di guerra avvenuta a Norimeberga[61], che si affiancò alle memorie e agli studi di vari ex ufficiali tedeschi nel dopoguerra. Il principale architetto di questi lavori fu l’ex Capo di stato maggiore Franz Halder, che supervisionò informalmente il lavoro di altri ufficiali che, durante e dopo la prigionia di guerra, lavorarono per il gruppo di ricerca del Foreign Military Studies Project ed ebbero accesso esclusivo agli archivi di guerra tedeschi conservati dall'US Army Historical Division[62][63]. Ulteriori impulsi a questa visione "travisata" della storia furono i lavori degli stessi storici anglosassoni, come Basil Liddell Hart, il quale sul finire degli anni Quaranta ebbe l'opportunità di intervistare i prigionieri di guerra tedeschi, tra cui generali ed ammiragli. Liddel Hart trascrisse questi numerosi colloqui in I generali tedeschi narrano, ma negli anni successivi il suo lavoro fu criticato in quanto l'autore mostrava una eccessiva credulità nel dipingere il corpo ufficiali tedesco, dipinto come un organo «composto essenzialmente di tecnici», intenti soprattutto a svolgere diligentemente i loro compiti professionali, senza idee in merito a ciò che accadeva al di là della loro sfera di influenza[64]. Le pubblicazioni di Liddell Hart, assieme a quelle di J.F.C. Fuller hanno poi indotto gli storici anglosassoni a giungere alla sorprendente conclusione che «sul campo l'esercito tedesco nel suo complesso osservò le regole della guerra meglio di quanto fece nel 1914-1918»[65]. Gli studi storiografici successivi hanno però ampiamente dimostrato come i generali tedeschi "raggirarono" Liddell Hart relativamente alle loro complicità nelle atrocità compiute dalla Wehrmacht[63], questo perché i generali tedeschi volevano liberarsi dal peso della collaborazione con il regime e dell'attuazione delle sue politiche criminali, richiamandosi a un nucleo di valori morali che in realtà era in completa antitesi con le loro azioni. Così, oltre al gran numero di memoriali di carattere apologetico e giustificativo, nell'immediato dopoguerra videro la luce anche moltissimi libri sulla storia delle singole divisioni scritti dagli stessi veterani, accomunati dalla volontà di rappresentare la propria guerra come una storia di coraggio, patriottismo e sacrificio, ignorando molto spesso gli aspetti più abbietti della guerra[65].

Un altro episodio che facilitò l'affermazione del concetto di "guerra pulita" della Wehrmacht, fu l'intervento del governo britannico durante il processo per crimini di guerra al generale Albert Kesselring: quest'ultimo ebbe inizio nel febbraio 1947 a Venezia da parte di una corte militare inglese, e si concluse il 6 maggio con una sentenza di condanna a morte. Fin dal giorno successivo gli ambienti politici e militari britannici iniziarono una decisa contro la condanna a morte del generale tedesco. Nel nuovo contesto politico internazionale che si andava delineando, la Germania occupata dagli alleati (che sarebbe poi diventata la Repubblica Federale Tedesca) diventata sempre più un tassello importantissimo dello schieramento occidentale in funzione anti-sovietica, e non conveniva perciò insistere sul tema dei crimini di guerra tedeschi[66]. A favore di Kesselring intervennero diverse personalità militari di spicco, tra le quali Harold Alexander, il quale l'8 maggio 1947 scrisse a Primo ministro Winston Churchill di sperare che la sentenza venisse commutata, poiché Kesselring e i suoi soldati avevano combattuto «in maniera dura ma pulita». La mobilitazione a favore del generale tedesco ottenne il risultato voluto[67], e il 29 giugno il generale John Harding commutò la sentenza di morte a Kesselring e dei generali Heinrich von Vietinghoff e Kurt Mälzer in ergastolo, con argomentazioni che dimostravano la vicinanza culturale degli stessi Alleati con gli ex-nemici in tema di crimini di guerra, soprattutto se avvenuti durante la lotta anti-partigiana. Harding ribaltò così la decisione presa dagli stessi Alleati appena un anno prima, dove gli inglesi si impegnarono a processare Kesselring motivati proprio dal bisogno di processare i responsabili delle innumerevoli rappresaglie contro i civili svolte dalla Wehrmacht in Italia[68].

Secondo lo storico Joachim Staron, la condotta della Wehrmacht durante l'occupazione dell'Italia fra il 1943 e il 1945 è stata oggetto, nel dopoguerra, di un «mito della guerra pulita»[69]. Staron osserva che la «rimozione», da parte della storiografia e dell'opinione pubblica tedesca, dei crimini commessi dalla Wehrmacht in Italia «può essere posta in relazione con il mito, nel frattempo pesantemente messo in discussione, della "Wehrmacht pulita", e in particolare con il mito della "condotta pulita della guerra in Italia" che ne rappresenta una specifica variante. Ad alimentare tale mito – che naturalmente non è privo di un nocciolo razionale[70] – sono stati in particolare alcuni generali, come per esempio l'allora comandante in capo del gruppo di armate C (Sudovest), Albert Kesselring. Fu in seguito al suo processo e alla campagna di stampa per ottenere la grazia che ebbe origine e si diffuse il mito della "guerra pulita" da lui condotta in Italia, con il risultato che venne messa la sordina ai crimini compiuti dagli occupanti tedeschi a sud del Brennero. Nel cono d'ombra di tale leggenda anche le efferatezze di cui si resero responsabili le SS e lo SD (servizio di sicurezza) sono state inizialmente ignorate o sono emerse solo con difficoltà e assai lentamente»[71]. Staron rileva che, sulla scia del discusso libro del giornalista Erich Kuby Il tradimento tedesco, pubblicato nel 1982, la leggenda della guerra pulita in Italia è stata demistificata, nel corso degli anni '90 del XX secolo, da storici quali Friedrich Andrae, Gerhard Schreiber e Lutz Klinkhammer[72].

Il memorandum di Himmerod

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A distorcere nell'opinione pubblica la visione della Wehrmacht ebbero il loro peso anche le politiche di occupazione dei paesi sconfitti decise durante la Conferenza di Potsdam, tenutasi fra l'Unione Sovietica, il Regno Unito e gli Stati Uniti dal 17 luglio al 2 agosto 1945. Queste includevano demilitarizzazione, denazificazione, democratizzazione e decentralizzazione. Tuttavia, secondo lo storico David C. Large, la realizzazione spesso rozza e inefficace di queste politiche da parte degli Alleati fece sì che la popolazione locale rigettasse il tutto come un «corrotto miscuglio di moralismo e giustizia dei vincitori»[73]. Inoltre nella zona occidentale di occupazione, l'avvento della guerra fredda indebolì il processo di demilitarizzazione, apparentemente giustificando il ruolo chiave della politica estera di Hitler – la «lotta contro il bolscevismo sovietico»[74].

Ma la spinta decisiva alla nascita del "mito" fu il cambiamento del clima politico che contribuì alla creazione dell'immagine di una "Wehrmacht pulita", secondo cui, a differenza della polizia e dei gruppi SS colpevoli di azioni criminali, la Wehrmacht avrebbe combattuto lealmente secondo le disposizioni della legge di guerra internazionale, senza essere coinvolta nei crimini del regime nazista[75]. Nel 1950, dopo lo scoppio della Guerra di Corea, apparve chiaro agli americani che un esercito tedesco avrebbe dovuto essere ripristinato per tener fronte all'Unione Sovietica. Sia i politici americani che quelli tedeschi occidentali si trovarono di fronte alla prospettiva di ricostruire le forze armate della Repubblica Federale[76]. Dal 5 all'8 ottobre 1950, un gruppo di ex ufficiali superiori, su iniziativa del cancelliere Konrad Adenauer, si incontrò in segreto all’abbazia di Himmerod, presso Großlittgen, per discutere il riarmo della Germania Ovest. I partecipanti furono divisi in diversi comitati che si focalizzarono sugli aspetti politici, etici, operativi e logistici delle future forze armate[77]. Il memorandum che ne risultò includeva un riepilogo delle discussioni della conferenza e portava il titolo «Memorandum sulla formazione di un contingente tedesco per la difesa dell'Europa Occidentale nell'ambito delle Forze di Combattimento Internazionali». Il memorandum era inteso sia come documento di pianificazione che come base di negoziazione con gli Alleati Occidentali[78].

I partecipanti alla conferenza erano convinti che nessun futuro esercito tedesco sarebbe stato possibile senza la riabilitazione storica della Wehrmacht. Così, il memorandum incluse i seguenti punti chiave:

  • Tutti i soldati tedeschi colpevoli di crimini di guerra sarebbero stati rilasciati;
  • La «diffamazione» del soldato tedesco, inclusa quella delle Waffen-SS, sarebbe dovuta cessare;
  • Avrebbero dovuto essere prese «misure per trasformare l’opinione pubblica tedesca e straniera» riguardo alle forze armate tedesche.

Adenauer accettò queste proposte, ma avvisò i rappresentanti delle tre potenze occidentali che non sarebbe stato possibile formare il nuovo esercito finché i soldati tedeschi fossero rimasti prigionieri. Per soddisfare il governo della Germania Ovest, gli Alleati commutarono un certo numero di sentenze di crimini di guerra[79].

Sempre su questa linea si pose la dichiarazione pubblica di Dwight D. Eisenhower del gennaio 1951, dove l'ex comandante in capo delle forze alleate in Europa affermò che c’era «una vera differenza tra il soldato tedesco e Hitler col suo gruppo criminale». Il Cancelliere Adenauer fece una dichiarazione simile in un dibattito al Bundestag sull'articolo 131 della Grundgesetz (la costituzione della Germania Ovest). Dichiarò che il soldato tedesco, se «non riconosciuto colpevole di illeciti», combatté sempre con onore. Queste dichiarazioni posero le fondamenta del mito della "Wehrmacht pulita" che riformò la percezione in Occidente dello sforzo bellico tedesco[80].

Dopo il ritorno degli ultimi militari dalla prigionia in Unione Sovietica, il 7 ottobre 1955, 600 ex membri della Wehrmacht e delle Waffen-SS fecero il seguente pubblico giuramento nella base militare di Friedland, che ebbe una forte eco nei media: «Davanti al popolo tedesco e ai morti tedeschi e davanti alle Forze Armate Sovietiche, giuriamo di non aver né ucciso, né devastato, né saccheggiato. Se abbiamo portato sofferenza e miseria ad altri popoli, questo fu fatto secondo le Leggi di Guerra»[81]

Come l'evoluzione storiografica ha sfatato il "mito"

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Fin dall'immediato dopoguerra, nei paesi che avevano subito l'occupazione della Germania nazista si svilupparono vivaci dibattiti nazionali attorno all'occupazione tedesca, prevalentemente orientati sulla contrapposizione fra resistenza e collaborazionismo, con un'attenzione diretta soprattutto all'analisi dei movimenti di resistenza militare che portò in diversi paesi alla nascita di organismi istituzionali indirizzati alla ricerca storica del periodo dell'occupazione, che a partire dal 1967 si unirono nel Comité d'Histoire de la Deuxième Guerre Mondiale[82]. Nella Germania Federale al contrario non si diede mai importanza a questi due aspetti, e, sviluppandosi in una limitata prospettiva nazionale e solo grazie a ristrette associazioni di diritto privato con gruppi di soci poco numerosi, negli anni Cinquanta e Sessanta la storiografia sullo studio della seconda guerra mondiale in Germania si concentrò sugli sforzi bellici tedeschi, considerati dal punto di vista strettamente operativo o in relazione alla condotta militare al fronte. Questa percezione nazionale si limitava dunque ai combattimenti, considerati come l'essenza della storia della seconda guerra mondiale, tralasciando quasi totalmente la politica di occupazione nazista nei vari paesi europei, argomento che solo dagli anni Settanta cominciò ad essere trattato in modo sistematico[83]. Contro la tendenza di questa narrazione "asettica" della storia, in quegli anni si svilupparono in Germania tre filoni interpretativi: il primo riguardante l'interpretazione di una storia militare critica nei confronti delle autogiustificazioni dei protagonisti, in primis dei generali del Terzo Reich; il secondo basato sull'interpretazione della guerra mondiale in quanto espressione dei programmi e degli obiettivi ideologici di Adolf Hitler; il terzo che si concentrava sull'analisi approfondita dei meccanismi di potere del Terzo Reich e dei processi di trasformazione all'interno della società tedesca[84].

Per quanto riguarda il primo punto, grande risonanza ebbe la tesi di Manfred Messerschmidt nel suo Die Wehrmacht in NS-Staat. Zeit der indoktrination in cui l'autore dimostrò come la Wehrmacht si era totalmente adeguata all'indottrinamento del regime, smontando quindi il concetto in auge fin dal dopoguerra secondo cui l'esercito tedesco si era dimostrato un organismo militare irreprensibile, obbligato contro la sua volontà ad obbedire ad ordini superiori criticabili[85]. Con questo saggio Messerschmidt si scontrò con la corrente di pensiero conservatrice che tentava già da tempo di costruire una continuità militare tra la Wehrmacht e il nuovo esercito federale, dove i generali del Terzo Reich venivano spesso omaggiati e dove gli articoli critici riguardavano solo le SS, Hitler o il partito, e non puntavano mai il dito contro la Wehrmacht e i suoi crimini[85]. A mettere a nudo la conduzione aggressiva e criminale della guerra, soprattutto a est, e a togliere ogni spazio ad una messa in forse della colpa tedesca per lo scoppio del conflitto, fu l'importante progetto storiografico dal titolo Il Reich tedesco e la seconda guerra mondiale (Der Deutschland im die Zweiten Weltkrieg), portato avanti dal Militärgeschichtliches Forschungsamt (Mgfa) ossia l'Ufficio storico del ministero della difesa. In questa serie di volumi però mancava del tutto uno studio sistematico della politica d'occupazione dell'esercito tedesco in Europa e i suoi effetti nelle diverse situazioni politiche[86], così come mancava uno studio più approfondito sulle responsabilità e sulle motivazioni per cui il Reich tedesco aveva condotto sul fronte orientale una guerra di sterminio[87]. L'assioma su cui si era basato questo studio era quello dove ogni responsabilità andava ricercata negli alti comandi militari e in Hitler, ma nuovi approcci interpretativi sviluppatisi negli anni Ottanta hanno dimostrato come la guerra di sterminio ad est e l'Olocausto siano stati condotti con l'attiva collaborazione della Wehrmacht, e nella loro attuazione venne dimostrato come l'esercito tedesco si sia macchiato di spaventosi crimini in tutta l'Europa occupata[88]. Questa generazione di storici tedeschi occidentali dimostrò per esempio la violazione sistematica da parte delle forze armate tedesche delle convenzioni internazionali e le enormi responsabilità degli alti comandi, queste ultime palesate dallo studio pionieristico del 1978 di Christian Streit (Keine Kameraden), in cui venne dimostrato come i comandi dell'esercito fossero i maggiori responsabili della morte di 3.3 milioni di prigionieri di guerra russi per denutrizione, esposizione alle intemperie, esecuzioni sommarie, maltrattamenti e mancata assistenza. Questa ecatombe si verificò perlopiù tra il 1941-1942, quando morirono circa 2.8 milioni dei 3.2 milioni di prigionieri caduti fino ad allora in mano tedesca; nel saggio Streit rimarcava e approfondiva l'analisi della dimensione ideologica degli ordini emanati dagli alti comandi (OKW), e come questi implicassero una stretta collaborazione tra Wehrmacht, SS e SD[89]. La morte per inedia e abusi fra i prigionieri di guerra sovietici era dovuta tanto alla deliberata mancanza di ogni organizzazione per il loro trattamento, trasporto e approvvigionamento, quanto al risultato di una deliberata politica «eliminazionista» ordinata dall'OKW e dall'OKH e attuata in modo zelante dall'esercito tedesco. I casi di comportamento brutale delle truppe tedesche contro i prigionieri e i civili sovietici raggiunse un livello tale che molti ufficiali superiori temettero a una generale caduta della disciplina che erodesse la loro autorità, dimostrando così come la politica ufficiale sul trattamento da riservare agli Untermenschen avesse provocato ad oriente un imbarbarimento morale tra le truppe tedesche, le quali si macchiarono di crimini atroci in ottemperanza agli "ordini criminali" impartiti dall'OKW alla vigilia dell'operazione Barbarossa[90].

Particolare attenzione venne data agli aspetti ideologici, all'alto comando e veniva sottolineata l'importanza della impostazione degli "ordini criminali" per creare le "basi legali" per l'esecuzione di crimini sistematici contro i prigionieri di guerra e i civili sovietici[91]. Le rivelazioni sull'ampiezza del coinvolgimento dell'esercito nelle uccisioni di massa perpetrate dalle Einsatzgruppen mostrarono ancora una volta la grande sensibilità dell'opinione pubblica tedesca nei confronti di questo tema. Nel 1981 il Der Spiegel scrisse che queste nuove indagini avevano mostrato «la spaventosa ampiezza dell'integrazione delle forze armate nei piani di sterminio e nelle politiche di Hitler [...], confutando la tesi prevalente secondo cui la Wehrmacht non aveva avuto nulla a che fare con gli stermini delle Einsatzgruppen in Unione Sovietica [...e] correggendo le opinioni ampiamente diffuse sulla "purezza" della Wehrmacht»[92][93]

Negli anni Novanta nuovi filoni interpretativi evidenziarono come la violenta politica di occupazione nazista dei territori occupati fosse in realtà parte integrante della storia politica ed economica del Terzo Reich, e come i crimini ordinati dai vertici militari fossero compiuti e resi possibili solo con la collaborazione fattiva e con l'approvazione ideologica degli ufficiali e dei soldati di ogni livello[94]. Queste nuove interpretazioni vennero dagli studi di storici americani e israeliani come Omer Bartov, il quale criticò il modo in cui la guerra veniva ricordata tra i tedeschi solo attraverso le operazioni militari e le fatiche fisiche, «tralasciando o considerando normale, l'unico aspetto realmente singolare, cioè la criminalità ad essa inerente»[95]. I nuovi studi basati sulla mentalità e l'indottrinamento dei soldati (o dei poliziotti) intrapresi da Bartov, Browning, Mazower o Schulte ampliarono l'orizzonte sulla collaborazione individuale al programma di sterminio nazista da parte dei soldati tedeschi e dei diversi appartenenti alle forze d'occupazione, rimettendo in discussione la facile distinzione tra burocrati e delinquenti, tra responsabili di reati gravi e tutti gli altri[96], mettendo in luce da angolature diverse le specificità della guerra condotta sul fronte orientale[91]. Il conseguente "allargamento" quantitativo del gruppo di colpevoli nella Wehrmacht e nelle forze di polizia fu proposto anche da storici tedeschi, soprattutto dopo la mostra itinerante del 1995 sui crimini della Wehrmacht (Vernichtungskrieg, Verbrechen der Wehrmacht 1941 bis 1944) organizzata e promossa dall'Hamburger Institut für Sozialforschung, la quale ha segnato uno snodo storiografico importante nello studio della guerra nazista[97][98]. I due curatori della mostra, Hannes Heer e Klaus Naumann, intendevano trasmettere al pubblico una visione della Wehrmacht e dei soldati in aperto contrasto con la memoria dei veterani e il carattere autoassolutorio della memorialistica militare, promuovendo invece una visione più "nazificata" dei comandanti e dei soldati di quanto fosse stata accettata fino ad allora[99]. I due curatori produssero poi un saggio, che ponendosi sulla scia degli studi di Bartov ne estremizzavano i concetti, offrendo una circostanziata ricognizione sui crimini commessi dai soldati della Wehrmacht e del suo essenziale «supporto attivo» allo sterminio ebraico. Supporto ottenuto grazie all'attenta politica razziale condotta da Hitler e dai comandi della Wehrmacht allo scopo di "brutalizzare" la guerra e creare nei soldati una «mentalità sterminatoria» grazie all'eliminazione di ogni restrizione formale al comportamento in guerra, fondendo così gli scopi militari al fanatismo ideologico, con lo scopo di allontanare il soldato alle regole della guerra[100].

La discussione mediatica attorno a questa mostra si sviluppò parallelamente all'accoglienza riservata in Germania dal libro di Daniel Goldhagen I volenterosi carnefici di Hitler. Accolto inizialmente dai media e dagli studiosi con un misto di critica e sarcasmo, il saggio si rivelò presto una novità sostanziale rispetto ai precedenti studi sull'Olocausto, e partendo dal presupposto che i tedeschi erano diversi da tutti gli altri popoli civilizzati, lo sterminio degli ebrei fu dovuto ad un'unica matrice di antisemitismo genocida[101]. Lasciando intendere che tutti i tedeschi nel Terzo Reich fosse potenziali, "volenterosi carnefici", Goldhagen accusò l'intera nazione di una responsabilità collettiva per l'Olocausto, cosa che i tedeschi di ogni orientamento politico hanno sempre rifiutato, ufficialmente e in privato, e la formula adottata dal cancelliere Helmut Kohl, secondo cui quei crimini erano stati compiuti «nel nome» del popolo tedesco, era la risposta standard a queste affermazioni. Ma il libro di Goldhagen non venne percepito in Germania come un sostegno ad una colpa collettiva, bensì come una «descrizione dettagliata» degli orrori dell'omicidio a sangue freddo e dei personaggi spregevoli che commettevano questi crimini. Proprio perché questi assassini non sembravano «uomini comuni», sembra che molti lettori non li abbiano associati alle proprie memorie personali, o ai membri anziani delle loro famiglie o comunità, cosa che invece successe con la mostra di Amburgo[102]. La mostra fu molto più difficile da accettare perché essa puntava il dito sulla Wehrmacht, che nella sua storia inquadrò oltre venti milioni di tedeschi, di ogni condizione sociale ed età (dai 16 ai 55 anni), in gran parte arruolati nelle forze armate e principalmente sul fronte orientale. Storie e memorie, testimonianze e ricordi, lettere e fotografie erano parte integrante di ogni famiglia tedesca e testimoniavano la guerra combattuta al fronte o subita in patria con enormi sofferenze e la perdita di tutto. Vedere accostati i propri cari alle atrocità compiute durante la seconda guerra mondiale fu per molti inaccettabile, anche perché era credenza comune che i crimini più efferati fossero compiuti dalle SS, dalla Ordnungspolizei o dalla Gestapo, che contavano molti meno membri della Wehrmacht. Eppure, spiega Bartov, i documenti mostrano che furono almeno 27 milioni i cittadini sovietici, i gran parte civili, a perdere la vita durante la guerra, e senza dubbio i principali responsabili di tale ecatombe vanno ricercati tra le fila dell'esercito tedesco e nella politica messa in atto dai vertici militari[103].

Con gli studi di Heer e Neumann la storiografia si è ulteriormente spostata dall'analisi degli alti comandi ai soldati, con approcci metodologici che combinavano la storia militare e politica all'antropologia e la storia sociale. Esemplari furono gli studi di Christopher Browning che riguardavano l'esecuzione di ebrei da parte dai riservisti del battaglione 101 di polizia nella Polonia occupata, raccolti in Uomini comuni. Polizia tedesca e «soluzione finale» in Polonia, in cui l'autore indagava le dinamiche di gruppo (conformismo, emulazione, principio di autorità) che erano in grado di trasformare uomini comuni in efferati assassini[91]. Da questi nuovi studi emerse una prospettiva nuova: negli anni la ricerca sullo sterminio su scala industriale delle camere a gas ha posto in secondo piano le uccisioni di massa eseguite da gruppi di assassini ben individuabili; come scrisse lo storico tedesco Lutz Klinkhammer: «il libro di Browning mise in luce non i pochi burocrati dello sterminio come Eichmann, ma migliaia di individui che a partire dagli anni Cinquanta poterono tirarsi fuori da queste storie grazie alle amnistie e ai mancati processi»[104]. Inoltre, dopo il 1989 con l'accessibilità agli archivi ex-sovietici e al materiale delle procure tedesche, il numero dei "colpevoli" si è ulteriormente allargato con gli studi di Götz Aly e Susanne Heim (Vordenker der Vernichtung. Auschwitz und die Pläne für eine europäische Ordnung), i quali applicarono una parte di responsabilità anche alle élite intellettuali e ai "tecnocrati", i quali pur senza mai essere direttamente coinvolti nello sterminio, diedero ai vertici nazisti un "senso logico" e degli appigli ideologici che i vertici trasmisero poi ai soldati, indirizzandoli verso quell'imbarbarimento (Bartov) che aveva trovato la sua corrispondenza nell'imbarbarimento delle pianificazioni intellettuali[105].

Negli anni Duemila la storiografia tedesca ha cercato di definire meglio il ruolo della Wehramcht nei territori sovietici occupati, nel suo coinvolgimento nella guerra anti-partigiana, e nell'eseguire operazioni per lo sfruttamento economico, a partire dal poderono saggio del 1999 di Rolf-Dieter Müller e Hans-Erich Volkmann (Die Wehrmacht: Mythos und Realität), che dava un'immagine dell'esercito tedesco ben più articolata e complessa ma contribuiva a smontare il mito della Wehrmacht "pulita" grazie ad un'analisi approfondita del livello di radicalizzazione ideologica dell'esercito, e allo studio in maniera puntuale dei contesti in cui le forze regolari esercitavano violenze brutali contro i civili[106]. Parimenti si sviluppò anche lo studio sul ruolo diretto e indiretto della Wehrmacht nella Shoah e nel genocidio degli ebrei russi, durante il quale le forze armate offrirono supporto logistico, assistenza e libertà operativa alle Einsatzgruppen nella fase iniziale del massacro; mentre altre unità presero attivamente parte alle uccisioni, la maggior parte fu impiegata in rastrellamenti, trasporto e sorveglianza degli ebrei, mentre la collaborazione con le squadre della morte fu accettata in quanto ritenute utili nel controllo dei territori nelle retrovie[107][N 2][N 3]. Gli storici si sono poi interrogati sulle caratteristiche dell'"imbarbarimento della guerra" e di quale fosse il grado di brutalità per definire la violenza militare come "barbara". In questo contesto lo storico Richard Overy ha definito tre aspetti fondamentali della guerra a est: la sovversione delle regole di ingaggio, la violenza indiscriminata durante la guerra partigiana e la violenza militare commessa consapevolmente contro i civili. Altri storici hanno individuato il discorso sul trattamento disumano dei prigionieri come uno dei tratti peculiari della guerra a est, mentre Donald Bloxham ha interpretato tutto il fronte orientale come un "territorio d'eccezione" nel quale le truppe tedesche operarono senza doversi riferire a norme politiche o sociali tradizionali[108]. Questi nuovi studi, intrecciati con le ricerche relative alla guerra totale e alla Shoah, hanno portato ad una proficua analisi sulle singole divisioni, dimostrando come la partecipazione alla violenza non fu uniforme, ma dipese dal tempo dal luogo e dalle aree operative di pertinenza; alcune divisioni ebbero un minor peso nell'esecuzione dei cosiddetti "ordini criminali", ma nel contempo vennero definite con maggior precisione dinamiche, responsabilità e ruoli durante l'occupazione dei territori sovietici[109].

Jennifer Foray, nel suo studio del 2010 sull'occupazione dei Paesi Bassi da parte della Wehrmacht, afferma: «Dozzine di studi pubblicati negli ultimi decenni hanno dimostrato che il distacco dalla sfera politica rivendicato della Wehrmacht fu un'immagine attentamente coltivata da comandanti e soldati, che, durante e dopo la guerra, cercavano di prendere le distanze dalle campagne omicide condotte ideologicamente dai nazionalsocialisti»[110].

Parallelismo con l'Italia

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Esplicative

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  1. ^ Qui di seguito uno stralcio dell'interrogatorio in cui il magistrato militare sovietico Aleksandrov interroga Guderian circa l'esecuzione dei famosi "ordini criminali" da parte dell'unità da lui comandata durante l'operazione Barbarossa o su altre unità tedesche, e quali effetti questi ordini avrebbero avuto durante la guerra:
    «D.: Ci sono ampie prove di brutalità e atrocità di massa perpetrate da soldati tedeschi nei territori occupati nell'est. Lei non crede che ordini di questo tipo abbiano consentito alle truppe tedesche di comportarsi in modo criminale?»
    R.:Come ho detto, non ho mai sentito dire che le forze armate abbiano commesso dei crimini. Però ho sentito delle voci su attività molto sgradevoli da parte delle forze di polizia nelle retrovie.
    [...]
    D.: Ma la sua posizione nell'esercito tedesco, nel quale ha poi ricoperto la carica di capo di stato maggiore dell'OKH, doveva consentirle accesso alle informazioni sulle forze armate tedesche nei territori occupati; le sue informazioni dovevano andare ben oltre le attività del suo gruppo Panzer.
    R.: Dopo il 20 luglio 1944 in effetti, ho avuto accesso a tutte le informazioni riguardanti le nostre forze armate ad est, ma limitatamente alle zone operative ed escludendo le retrovie. Le retrovie non erano sotto il controllo dell'esercito; avevano un'amministrazione civile[59]
    D.: Ma gli ordini vengono scritti per essere eseguiti no?
    R.: Non capisco la domanda
    D.: Stiamo parlando degli ordini dell'OKW riguardanti la condotta delle forze armate tedesche nei territori occupati. E a questo proposito le chiedo: gli ordini non vengono scritti per essere eseguiti?
    R.: È così.
    D.: E noi abbiamo ampie prove, sotto forma di documenti e altro, che questi ordini sono stati eseguiti dall'esercito tedesco.
    R.: Ma io non ho niente da aggiungere perché non so nient'altro.
    D.: Lei chi considera responsabile dell'emissione di questi ordini criminali?.
    R.: Hitler
    D.: Solo Hitler?
    R.: Sì
    D.: E il comando supremo delle forze armate?
    R.: Non c'è dubbio che, emettendo questi ordini, l'OKW stesse seguendo istruzioni di Hitler. Io non so quali discussioni abbiano preceduto questi ordini; non facevo parte dell'OKW[60].
  2. ^ Basandosi sugli studi di Raul Hilberg, la giornalista Hannah Arendt scrisse già nel 1964: «[le Einsatzgruppen] avevano quindi bisogno della collaborazione delle forze armate, e in effetti i rapporti con queste erano di regola "eccellenti" e in certi casi addirittura "cordiali" (herzlich). I generali si dimostravano di una "bontà stupefacente": non solo consegnavano agli Einsatzgruppen i loro ebrei, ma spesso distaccavano soldati regolari perché li aiutassero a massacrare.» Vedi: Hannah Arendt, La banalità del male, 28ª ed., Milano, Feltrinelli, 2017, p. 115, ISBN 978-88-0788-322-4.
  3. ^ Felix Landau, membro della Gestapo, mentre era di stanza a Leopoli (Ucraina), registrò nel suo diario un episodio esplicativo del comportamento brutale dei soldati ad est e i loro rapporti con le altre unità di polizia: «Arrivammo alla cittadella dove vedemmo cose che raramente uno può aver visto. Sull'ingresso, soldati tedeschi con manganelli della grossezza di un pugno colpivano dove capitava. Sempre sull'ingresso gli ebrei si affollavano per uscire, perciò molti giacevano a terra come porci in file sovrapposte piagnucolando in modo incredibile e da lì continuavano a venirne fuori alcuni, tutti coperti di sangue. Restammo lì per vedere chi era al comando: "nessuno". Qualcuno aveva lasciato liberi gli ebrei che ora venivano colpiti per odio e per desiderio di vendetta. Niente da dire in contrario, solo che non si dovrebbe far andare in giro gli ebrei in quelle condizioni. [...] Per oggi le nostre occupazioni sono finite. I rapporti con i camerati per ora sono ancora buoni». Vedi: Daniel Goldhagen, Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell'umanità, Milano, Mondadori, 2011, p. 182, ISBN 978-88-04-61198-1.

Bibliografiche

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  20. ^ Badoglio rappresentava la più alta carica militare in servizio, ma di fatto non aveva alcun potere di comando; era soltanto il consulente militare del capo di governo, un ruolo onorifico, ma limitato in sostanza a quello che voleva Mussolini. Badoglio accettò questo ruolo ma intervenne a più riprese nel dibattito con lucidità , insistendo sulla necessità di agire con un clima internazionale favorevole, criticando l'avventurismo di De Bono e chiedendo un aumento delle forze militari in Africa orientale. Vedi: cita
  21. ^ Rochat 2008, p. 17.
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  59. ^ Cosa non vera in quanto le retrovie erano controllate da personale militare, nel 1941 solo le zone ormai più lontane dal fronte erano sotto l'autorità civile, ma quando le forze tedesche iniziarono a ritirarsi investendo le regioni sotto controllo dell'autorità civile, questa differenza in pratica cessò. Vedi: Overy, p. 520.
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  70. ^ Staron cita in proposito uno studio di Lutz Klinkhammer, secondo il quale si può supporre che il 95% dei soldati tedeschi in Italia non sia stato coinvolto, né direttamente né indirettamente, nell'uccisione di civili, benché, sempre secondo Klinkhammer, molti di essi possano essere stati «conniventi» con tali crimini: Staron 2007, pp. 385-6 n.
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Bibliografia

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In italiano

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